Daniele Lippi, classe 1990, si è insediato al timone della cucina di Acquolina, il ristorante gourmet dell’hotel The First Roma ARTE di via del Vantaggio, oggi due stelle Michelin.
Cresciuto alla scuola dei fratelli Troiani, per 9 anni presso il Convivio, Head Chef dal 2015, Daniele Lippi perfeziona il suo stile con varie “incursioni” ai vertici del panorama stellato internazionale, da Yannick Alléno – Pavillio Ledoyen*** , Parigi – a Enrdico Crippa – Piazza Duomo***, Alba – a Grant Achat presso Alinea Restaurant di Chicago e ancora in Spagna con Paolo Casagnade al Lasarte*** di Martin Bersategui.
Daniele Lippi alla guida del ristorante Acquolina** propone una Nuova Cucina Mediterranea che non snatura l’elegante anima del ristorante, ma che anzi ne esalta i punti di forza.
Il suo è un percorso di continua evoluzioneculinaria e di raffinata cura di ogni minimo dettaglio. Sia la cucina che la sala sono oggetto di un attento studio, e sono protagoniste di un’armonioso, forte interazione che costituisce la firma di Acquolina.
Spinto dagli ottimi risultati ottenuti nel periodo più recente, Daniele Lippi ha scelto di intensificare il suo lavoro di ricerca per dar vita ad una filosofia di cucina estremamente personale che trae ispirazione dalla corrente della Cucina Mediterranea. Un concetto dello Chef Lippi che ci trasporta in un vero e proprio viaggio non solo geografico, ma anche temporale, attraverso il mare nostrum. Partendo dall’antica Roma e dalla nostra penisola si percorrono oltre mille anni di storia, attraversando coste ed entroterra di territori solitamente esclusi dai luoghi comuni della cucina mediterranea, come Marocco, Turchia, Spagna, Grecia. Emerge dunque la portata rivoluzionaria di un’attenta ricerca che rivela la nostra appartenenza ad un’unica e contaminata cultura secolare. Una visione rivoluzionaria che affonda le proprie radici in gesti e sapori antichi, riscoperti e resi attuali.
Ricetta omaggio per il piatto più famoso del ghetto ebraico di Roma (Il topinambur è detto anche ‘carciofo di Gerusalemme’).
Nella cucina ebraica domina la frittura e nell’ebraismo in generale l’olio acquista un significato metaforico in virtù dei riferimenti che si trovano nella Torah: esso resta separato dagli altri liquidi e, anche se mischiato nello stesso recipiente, mantiene la sua purezza. Così come gli ebrei che, pur vivendo nella diaspora, hanno mantenuto salde le loro radici.
Questa ricetta, già trovata citata in ricettari risalenti al XVI, nasce insieme al ghetto, istituito a Roma intorno al 1555, quando con l’emanazione della bolla cum nimis absurdum, papa Paolo IV revocò tutti i diritti agli ebrei romani costringendoli a vivere separati dai cattolici. Qui trovarono ospitalità anche gli ebrei di Spagna e Sicilia, cacciati da Isabella di Castiglia nel 1492, i quali portarono a Roma le ricette dei loro luoghi d’origine. Queste 3 culture gastronomiche cominciarono a mischiarsi negli stretti vicoli del ghetto sempre nel rispetto della cucina kosher e così nacquero i carciofi alla giudia che vennero chiamati così dai romani non residenti nel ghetto.
Ricetta in onore del Baccalà, emblema per eccellenza della cucina povera popolare e alimento notoriamente associato ai periodi di astinenza e Quaresima. La sua fortuna mediterranea comincia il 3 febbraio 1432, quando il nobile veneziano Pietro Querini, naufragò con la sua nave in acque norvegesi. Tratto in salvo dai marinai di Rost, rimase fortemente impressionato dalle cascate di pesce steso ad asciugare al vento (stokkfisk) e, non appena rientrato in patria, decantò la sua scoperta al doge Francesco Foscari. Ma il vero sposalizio tra Italia e Baccalà avvenne circa un secolo più tardi, quando durante il Concilio di Trento venne stabilito un rigoroso calendario di digiuni, proclamando come giorni di astinenza da carne il mercoledì, il venerdì, la Quaresima e tutte le feste comandate. È l’inizio dell’ascesa inesorabile del pesce secco, promosso da uno dei partecipanti al Concilio, il cardinale svedese Olav Manson che per l’occasione scrisse il libro Historia delle genti et della natura delle cose settentrionali, nel quale dedica molte pagine di lode al pesce bastone. Qui viene descritto come pesce ideale per allietare i giorni di vigilia, conciliando così le ragioni del palato e dell’anima, diventando l’emblema del mangiar magro e penitente per le persone meno abbienti. In alcune iconografie dell’epoca la Quaresima viene spesso raffigurata come una vecchia magrissima che brandisce il pesce stocco.